Cosa è l' attacco di panico
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Attaccp di panico
Come curare l'attacco di panico
Farmaci e trattamento farmacologico per l'attacco di panico
Terapia integrata nel disturbo di panico con agorafobia
Ivano Cincinnato
Centro di Clinica e Formazione Strategica
Roma
Lazio
info@curaregliattacchidipanico.it
INTERVENTI FARMACOLOGICI E PSICOLOGICI NEL DISTURBO DI PANICO
Il disturbo di panico è un disturbo molto frequente nella popolazione generale e, negli ultimi decenni, è notevolmente cresciuto l'interesse verso la sua eziopatogenesi e cura. Attualmente vi è una consistente letteratura circa i diversi trattamenti possibili; l'intervento terapeutico indicato dalla letteratura internazionale come maggiormente efficace sul disturbo di panico e agorafobia è la terapia cognitivo-comportamentale (CBT).
Con questo termine s'intendono sia tecniche comportamentali (desensibilizzazione sistematica, esposizione in vivo, simbolica, rilassamento, training respiratorio, training assertivo, tecniche di gestione dell'ansia) sia psicoterapie cognitive standard.
Fra le tecniche comportamentali l'esposizione in vivo sembra nettamente più efficace rispetto a tutte le altre (Marks, 1993; Van Balkom, 1997); la tecnica prevede l'identificazione della natura e del grado delle limitazioni fobiche in modo da poter sviluppare una gerarchia di paure ed evitamento da affrontare gradualmente. Il meccanismo dell'esposizione in vivo non è chiaro; le ipotesi sull'efficacia includono l'estinzione alla risposta di paura, l'incremento della personale esperienza di successo e il cambiamento delle rappresentazioni cognitive memorizzate responsabili dell'attivazione delle emozioni.
Per quanto riguarda la terapia cognitiva la tecnica più riportata in letteratura è la ristrutturazione cognitiva. Clark (1986) sostiene che nel fare insorgere l'attacco di panico sia fondamentale la valutazione catastrofica dell'ansia conseguente a sensazioni di tipo fisico, vissute dall'individuo come pericolose. Le tecniche di ristrutturazione cognitiva sono mirate a modificare queste catastrofiche interpretazioni associate al panico (Barlow, 1988) e il significato stesso del panico (Beck, 1985; Salkovskis, 1991).
La terapia cognitiva da sola, tuttavia, risulterebbe superiore solo alle tecniche di rilassamento (Beck, 1985; Clark, 1988); infatti, Chambless (1993) indica come maggiormente efficace sul Disturbo di Panico il trattamento combinato cognitivo-comportamentale (ristrutturazione cognitiva ed esposizione in vivo).
Vari autori (Clark, 1986; Margraf, 1993; Clum, 1993; Gould, 1995; Barlow, 2000) riportano per l'intervento cognitivo-comportamentale tassi di remissione intorno all'80% nei campioni descritti, miglioramenti che permangono anche dopo un anno di follow-up.
Un'ampia letteratura ha dimostrato anche la buona efficacia della maggior parte dei farmaci serotoninergici nel trattamento del disturbo di panico, in particolare clomipramina (Modigh et al, 1992), paroxetina (Wagstaff et al, 2002; Pollack & Doyle, 2003) con o senza l'associazione di benzodiazepine, rappresentate soprattutto da alprazolam (Sheikh & Swales, 1999; Verster & Volkerts, 2004). Negli ultimi anni sono stati condotti molti studi di confronto di efficacia fra l'intervento farmacologico e cognitivo-comportamentale (Klosko, 1990; Cox, 1992; Margraf, 1993; Marks, 1993): quest'ultimo sembrerebbe offrire un maggior numero di guarigioni, un minor numero di drop-out ed un più prolungato mantenimento dei benefici ottenuti, oltre che un importante contenimento dei costi (Otto, 2000; Nadiga, 2003; Rayburn, 2003).
Alcuni studi hanno confrontato l'efficacia di tecniche comportamentali rispetto alla farmacoterapia: nello studio di Clum (1993) l'impiego dell'esposizione in vivo in pazienti con disturbo di panico si dimostrava più efficace rispetto all'uso di antidepressivi, che, a loro volta, si mostravano superiori all'uso di benzodiazepine e alle tecniche di rilassamento ed esposizione in immaginazione (Kilic, 1997). Roth e Fonagy (1996) hanno sottolineato che le tecniche umanistiche e dinamiche non sono per lo più indicate nel trattamento del disturbo di panico, mentre sembra più efficace l'intervento combinato terapia cognitiva e triciclici (imipramina) e, per l'agorafobia, tecniche di esposizione in vivo; quest'ultime risulterebbero parimenti efficaci se fatte insieme o senza il terapeuta.
LA TERAPIA INTEGRATA
La letteratura più recente riporta la superiorità dell'intervento integrato o combinato sul disturbo di panico rispetto agli altri interventi effettuati singolarmente (Zarate, 1994; Van Balkom, 1997; Spiegel, 1997; Barlow, 2000; Bridler & Umbricht, 2001; Foa, 2002; Biondi e Picardi, 2003). Secondo tali Autori soprattutto l'intervento integrato determinerebbe un maggiore numero di remissioni rispetto alla somma dei singoli trattamenti, un miglioramento in aree non direttamente bersaglio di uno dei due trattamenti (es. qualità della vita, adattamento sociale, abilità socio-lavorativa, etc.), una minore durata del trattamento farmacologico, minori dosaggi, con migliore compliance e ridotti effetti collaterali; nel follow-up determinerebbe remissioni più protratte con un numero minore di ricadute.
L'intervento integrato si differenzia nettamente dall'intervento combinato o associato anche se spesso in letteratura tale distinzione non sembra emergere.
Associare due trattamenti significa che ciascuno svolge la sua funzione indipendentemente dall'altro: ciascuno apporta il suo beneficio e ci si aspetta al più che non interferiscano. Integrare significa che il loro effetto è complementare e sinergico: ognuno agisce almeno a livelli diversi (in questo senso sono complementari) e il loro effetto complessivo è superiore alla somma di entrambi.
Karasu (1982) sosteneva che le terapie psicologiche e farmacologiche potevano coesistere ed integrarsi proprio in virtù del diverso campo d'azione (i farmaci per i disturbi "di stato", limitati nel tempo e la psicoterapia per i disturbi "di tratto", di lunga durata), della modalità di azione (i farmaci sulla formazione dei sintomi e sui disturbi conseguenti, la psicoterapia sulle relazioni interpersonali) ed infine del tempo e durata d'azione (i farmaci con effetto iniziale rapido e durata più breve, la psicoterapia con effetti più lenti ma per periodi di tempo più lunghi). L'integrazione prevede tempi strutturati e sovrapposti: psicoterapia e farmacoterapia hanno differenti effetti, differenti loci e differente scansione temporale. In terapia integrata i due trattamenti devono essere eseguiti con obiettivi comuni e metodologia coerente Ogni trattamento è diverso rispetto a quando sono eseguiti separatamente; come vedremo in seguito infatti il trattamento farmacologico viene modulato in funzione dell’andamento della psicoterapia e la psicoterapia comprende anche psicoeducazione, gestione ed elaborazione del trattamento farmacologico; la farmacoterapia inoltre viene condotta tenendo conto che le emozioni anche negative non sono solo sintomi ma che possono essere coerenti con certi eventi e quindi non devono essere eliminate. Il trattamento integrato si differenzia dal trattamento associato o combinato anche perché è migliore se condotto da un solo terapeuta con la possibilità di gestire ed articolare meglio le due strategie. La presenza di un unico terapeuta diminuisce inoltre i costi dell'intervento sia per il minor tempo impiegato sia per un minore utilizzo di risorse; naturalmente il terapeuta psichiatra deve avere anche una formazione di tipo psicoterapeutico. Per tutti questi aspetti è auspicabile che la terapie in psichiatrie si organizzino sempre più con modalità integrate.
I SINTOMI COME SQUILIBRIO DEL SISTEMA CONOSCITIVO
Un attacco di panico può considerarsi un'attivazione neurovegetativa di sequenze comportamentali basiche, incongrua alla situazione, perché attivato dalla sfera cognitiva senza avere le caratteristiche oggettive del pericolo.
L'evento attivante (interno od esterno) entra in relazione con schemi personologici vulnerabili costruiti nella reciprocità con le figure di attaccamento che si attivano in relazione a quell'evento. Le modalità d'interazione tra l'evento e gli schemi personologici vulnerabili sembrano avere vincoli precisi. L'evento sembra definirsi in situazioni di distacco o soffocamento in un legame significativo. La percezione netta di stare male in un rapporto stimola la fantasia di concreto distacco dal rapporto stesso: l'idea del distacco attiva il senso di solitudine e la conseguente paura; percepirsi non in grado di stare da soli spaventa perché minaccia l'esigenza di autonomia.
Le modalità di controllo non riescono più a riequilibrare la dissonanza emotivo-cognitiva (voglia di essere libero\necessità di avere qualcuno che mi protegge); emozioni confuse e disagevoli vengono inserite nel sistema conoscitivo e l'attribuzione di significato diventa confusa e centrata sul corpo, perché questo è un percorso facilitato nelle organizzazioni fobiche. Il soggetto fobico si considera, infatti, incapace di tollerare l'ansia e vorrebbe "eliminare" ogni attivazione neurovegetativa vissuta come disturbante: l'esagerazione di queste convinzioni lo pone in una sorta di trappola cognitiva il cui effetto è proprio la produzione della temuta attivazione neurovegetativa.
Se una persona con organizzazione fobica prova emozioni (anche piacevoli) senza controllo può attivare un meccanismo per cui sperimenta sensazioni confuse e poco definite che, a loro volta, attivano il controllo.
Se continua a provare emozioni attiva immagini ancora più pericolose: è come se non ce la facesse a provare emozioni senza elaborarle come pericolose e conseguentemente attivare controllo.
Il sintomo agorafobico, nella sua manifestazione clinica, sembra avere alla base un meccanismo etologico come la territorialità. Partendo dalla percezione di "pericolo" interno rispetto ad un corpo che non si sente più sicuro ed affidabile, viene percepito come pericolosa la distanza dal territorio personale inteso come legame con figura significativa e si disattiva incongruamente la sequenza comportamentale basica di esplorazione.
PROPOSTA DI UN PROTOCOLLO DI TERAPIA INTEGRATA
Nella creazione di un protocollo di intervento secondo noi è necessario seguire caratteristiche fondamentali:
◘ coerenza con la teoria (più coerenti sono i modelli teorici, più efficace l’applicazione),
◘ aspetto scientifico dell'intervento (l’intervento deve essere in rapporto con il funzionamento del cervello),
◘ verifica di qualità (devono essere efficaci e valutati con caratteristiche oggettive),
◘ domanda dell'utenza (circa l'80% dei pazienti chiedono una terapia psicologica breve e orientata sul sintomo).
I protocolli d'intervento devono avere, quindi, come caratteristiche fondamentali: brevità della durata, efficacia clinica, bassi costi, essere standardizzati e manualizzabili per poter essere sottoposti a verifica.
PROTOCOLLO DI TERAPIA INTEGRATA NEL DISTURBO DI PANICO
Presso il Centro di Terapia Cognitivo-Comportamentale (CTCC) dell’Unità Operativa di Psichiatria dell’Università di Firenze vengono proposti all’utenza, ormai da più di 10 anni e con soddisfacenti risultati, protocolli di terapia integrata per il trattamento dell’ansia che si presenta in vari quadri nosografici (Disturbo di panico, DOC, Fobia Sociale, Distimia, Pseudocrisi, D. Borderline, panico alessitimico). Il protocollo che illustriamo in questa sede è quello utilizzato nel Disturbo di Panico. Descriveremo innanzi tutto i cardini dell’intervento integrato (terapia farmacologica, intervento didattico informativo, intervento cognitivo-comportamentale ed intervento sugli schemi prevalenti) per poi proporre una scansione temporale operativa.
TERAPIA FARMACOLOGICA
I sintomi possono essere considerati l'obiettivo principale della prima parte dell'intervento, poiché essi sono la manifestazione dello squilibrio della struttura cognitiva del paziente, organizzatori patologici dell'attuale sistema personale di conoscenza. Quindi l'unica possibilità di strutturare un intervento e di impostare la relazione terapeutica non può che passare attraverso l'osservazione e il lavoro condiviso sui sintomi. Dare i farmaci, in questo senso, non è un atto neutro; rappresenta l'incontro tra terapeuta e paziente che costruirà le basi e l'evoluzione della futura relazione terapeutica. L'impiego dei farmaci, quindi, deve essere inserito in un contesto di rapporto in cui la molecola non è uno strumento di pura riduzione sintomatologica, bensì il mezzo grazie al quale l'impatto emotivo del sintomo viene attenuato e conseguentemente le proprie capacità elaborative rispetto al sintomo stesso possono modificarsi. Solo diminuendo i sintomi è possibile attivare le componenti funzionali della struttura conoscitiva. Inoltre il farmaco e la sua somministrazione rappresentano modalità significative anche per gli aspetti psicologici che possono orientare la relazione terapeutica. Molti Autori ( Sawer-Foner, 1982) hanno sottolineato il significato relazionale del farmaco sia in senso positivo (Adelmann (1985) ha definito l'utilizzazione del farmaco come "oggetto transizionale", sottolineandone l'utilità e l'importanza nella relazione con pazienti borderline) sia in senso negativo (Savage (1960) sottolineò gli aspetti negativi come"manipolare l'ansietà" o "abbandonare l'effetto psicoanalitico" nella somministrazione di farmaci a pazienti in analisi). Nella relazione terapeutica, soprattutto nella parte iniziale del trattamento, l'impiego del farmaco permette di costruire una relazione con il paziente su un'area privilegiata, e cioè in un campo prettamente clinico, che si avvicina per la sua prevedibilità alla migliore situazione di sicurezza per il paziente con tratti fobici: la distanza nella relazione può, così, diminuire diventando le modalità d'intervento più comprensibili e, quindi, più utilizzabili dal paziente. Il farmaco, soprattutto inizialmente, può rappresentare una modalità di cura meno "invasiva" o “costrittiva”, che consente di attivare modificazioni del sistema conoscitivo mantenendo coerenza con la propria storia o struttura di personalità. E', inoltre, "qualcosa che rimane della relazione, al di fuori della relazione" (Galassi, 1992) stimolando maggiormente fattori terapeutici aspecifici quali accudimento, funzione vicariante, maggiore autoefficacia e mastery nel paziente.
Il farmaco può servire, anche, a sfumare problematiche di distacco o abbandono, mitigando la particolare forma di dipendenza all'interno della relazione terapeutica che si struttura su un doppio binario.
Per il trattamento integrato impieghiamo molecole di validata efficacia scelte sulla base dell’anamnesi farmacologica e del profilo sintomatologico. In genere se il soggetto non ha mai assunto farmaci e se il profilo sintomatologico è quello di un Disturbo di Panico tipico, noi utilizziamo paroxetina o clomipramina con alprazolam nella prima parte del trattamento. Si parte con la prescrizione di dosi molto basse con un progetto di incremento graduale, in considerazione della farmacofobia del soggetto e dell’osservazione che spesso la risposta clinica può avvenire con dosi non massimali. Il dosaggio definitivo, così come i tempi di incremento, sono ottimizzati sulla base della risposta clinica, degli effetti collaterali e della riluttanza del paziente. Il trattamento farmacologico è mantenuto per circa 6-8 mesi. La maggiore aderenza al trattamento psicofarmacologico può essere ottenuta responsabilizzando il paziente nel progetto di cura rendendolo consapevole degli obiettivi che si intende raggiungere ed esplicando chiaramente limiti e vantaggi; diventano pertanto essenziali le informazioni sulle medicine prescritte ed il modo con cui vengono condivise. Un'accurata spiegazione sulle caratteristiche dei farmaci (meccanismo d’azione, latenza, effetti collaterali, benefici e limiti) ed interventi tipo cognitivo, volti a mitigare le distorsioni cognitive del paziente relative ai farmaci (timori di dipendenza, passività, perdita di controllo), faciliterà l'assunzione del farmaco e permetterà di evitare una prematura interruzione della terapia. Il paziente sarà stimolato a partecipare attivamente alla gestione della terapia farmacologica sfruttando le sue capacità autodiagnostiche e autoterapeutiche: l’uso della terapia al bisogno, le decisioni su aumenti o scalaggio della terapia, la valutazione dell’impatto degli effetti collaterali e del significato dell’assunzione del farmaco sono tutte occasioni in cui si stimola maggiore partecipazione e autonomia non facilitando passività, aspettative magiche e delega.
INTERVENTO DIDATTICO-INFORMATIVO
A persone con tratti organizzativi fobici è fondamentale dare informazioni precise e ben dettagliate sulla teoria della crisi. La lettura di materiale informativo e spiegazioni su che cosa è il disturbo sono già di per sè un intervento di buona efficacia. L'efficacia di questo intervento non consiste tanto nel fornire informazioni scientificamente valide quanto piuttosto nell'offrire al paziente una definizione funzionale di disturbo che renda possibile riflettere su se stessi e proporsi modi per accrescere la comprensione di se stessi. Questo dovrebbe fornire una base per aumentare la compliance agli specifici interventi e per sviluppare i propri metodi di coping.
Gli obiettivi che si propone questo intervento sono:
1. Ottenere da parte del paziente una comprensione dei sintomi e della loro variabilità;
2. Offrire un modello psicologico dell’esordio e del mantenimento del proprio disturbo; ciò dovrebbe fornire ai pazienti una maggiore consapevolezza rispetto ai sintomi, ai comportamenti e alle circostanze di esordio del disturbo che sono legate alle loro esperienze precedenti ed agli apprendimenti sociali;
3. Formulare un'interpretazione della sintomatologia come risultato dell'interazione tra circostanze esterne ed eventi interni;
4. Attivare le competenze necessarie per poter identificare precocemente i sintomi di crisi, per poterne bloccare tempestivamente lo sviluppo e per poter gestire in modo autonomo ed efficace la terapia farmacologica;
5. Aumentare la sensazione del paziente di essere capace di influire positivamente sull'andamento del proprio disturbo utilizzando strategie cognitive e comportamentali utili per affrontare le situazioni problematiche.
Il modo con cui proporre queste conoscenze varia in funzione dello stile relazionale del paziente. Vale comunque il principio generale di mantenere un atteggiamento didattico ma non “cattedratico” e di cercare il più possibile di calare le informazioni nell’esperienza personale del paziente, agganciando ogni elemento ad un episodio narrato. Inoltre gli elementi psicoeducativi non occupano necessariamente uno spazio definito perché sono inseriti nelle fase opportuna della terapia (ad es. la fisiologia dell’ansia e le tecniche di fronteggiamento come introduzione all’esposizione in vivo; il modello ABC come introduzione alla ristrutturazione cognitiva ecc.). Una parte del materiale psicoeducativo può essere proposto attraverso materiale scritto: ciò consente un guadagno di tempo e evita di dare agli incontri una impronta eccessivamente didattica; i soggetti inoltre spesso apprezzano la possibilità di avere un testo che possono analizzare con calma ed eventualmente ridiscutere con il terapeuta.
Alcuni dei messaggi che riguardano la fisiologia dell’ansia e la “normalizzazione” dei vissuti ansiosi possono essere così schematizzati:
1. Gli attacchi di panico sono una reazione "naturale" di paura che dura poche decine di secondi; la durata dello stato ansioso dipende da ciò che si pensa o immagina (tipo penso "ora muoio, sto impazzendo, che mi succede" e conseguentemente provo ansia).
2. L'ansia ha sempre una curva che prevede una salita e una discesa naturale: alla fine passa da sola senza dover fare nulla.
3. Gli attacchi di panico sono reazioni di difesa geneticamente determinate che servono per la sopravvivenza personale, poiché permettono di affrontare meglio la situazione aumentando le proprie capacità di prestazione (concentrazione, attenzione, performance). Le stesse sensazioni possono essere vissute in modo totalmente diverso: infatti molte persone vivono sensazioni di panico ("voglio provare adrenalina") positivamente e continuano a ricercarle.
4. Il panico non è pericoloso, deriva da come io penso riguardo alle cose che mi stanno capitando. Le varie situazioni, infatti, non sono oggettivamente pericolose: è l'individuo ansioso che ha imparato a viverle come tali, e deve perciò reimparare a pensare le situazioni come effettivamente sono.
5. Nessuno dei sintomi sperimentati durante l'attacco indica che la persona è pericolosamente malata o sta per diventare pazza: sono spiacevoli e fastidiosi, ma possono essere tollerati fino a che andranno via.
6. Evitare le situazioni che provocano paura non serve a nulla; anzi, pensando in modo catastrofico, se le rimando peggioro la mia ansia. L'evitamento è parte integrante del panico. Pertanto è molto importante addestrarsi a riconquistare il "territorio" perso.
7. E' importante imparare ad accettare l'ansia, non combatterla. L'ansia fa parte di noi; combatterla è come combattere contro una parte di sé. Rimanere ad osservarla e accettare l'ansia è il modo più veloce per farla scomparire.
8. E' importante imparare ad osservare l'ansia, guardandola senza giudizio, né buono né cattivo, osservando i livelli massimi e minimi e le situazioni che la fanno aumentare o diminuire, rimanendo distaccati e diventando buoni osservatori di se stessi.
9. Bisogna imparare ad agire con l'ansia, normalizzando la situazione, immaginando di essere "sani". Fuggendo dalla situazione, l'ansia si abbasserà ma il disturbo peggiorerà. Si può rallentare, continuando a fare le cose che si stavano facendo: non fermandosi sia l'ansia che la paura si abbasserà e sarà possibile, in poco tempo, riprendere a fare quello che già stavamo facendo.
10. Si può riuscire a distrarsi dall'ansia, utilizzando tutte le tecniche di distrazione che conosciamo: concentrandosi sui particolari e i dettagli di quello che ci circonda, magari descrivendoli a voce alta, farà passare il breve momento ansioso e già dopo poco tempo ci si potrà sentire meglio.
11. Bisogna cercare di aspettarsi il meglio. Ciò che più l'uomo teme raramente accade; le più famose società di assicurazioni hanno guadagnato miliardi sfruttando la tendenza di tutti noi di stare in ansia per eventi che raramente si verificano; sono pronte a scommettere con chiunque che le disgrazie previste non accadranno mai: solo che non le chiamano scommesse ma assicurazioni e cioè una scommessa basata sul calcolo delle probabilità.
12. Importante sarà affrontare le situazioni difficili con piccoli passi, ponendosi piccoli obiettivi. Le situazioni di cui si ha paura devono essere affrontate gradualmente, senza fretta, e se spezzettiamo le situazioni difficili riusciremo a risolvere meglio ogni piccola parte e rimarremo soddisfatti dei risultati ottenuti.
13. Non bisogna essere sorpresi quando sperimenteremo ansia, ma di come ci poniamo nei suoi confronti. Finché vivremo avremo ansia: va abbandonata la convinzione magica di aver sconfitto l'ansia per sempre. Aspettandoci l'ansia in futuro, ci mettiamo in una buona posizione per accettarla quando verrà di nuovo.
14. Bisogna continuare ad applicarsi costantemente per rendere abituali certe nostre azioni che ci sembrano straordinarie rinforzando la nostra sensazione di capacità di affrontamento.
ESPOSIZIONE IN VIVO
Una parte della terapia è dedicata ad insegnare al paziente ad esplorare le situazioni temute ed evitate: egli deve gradualmente esporre a tutte le situazione identificate, precedentemente ordinate secondo una gerarchia di ansiogenicità.
Valutiamo insieme al paziente quali sono le situazioni che stimolano ansia, le descriviamo in dettaglio e le quantifichiamo con un punteggio da 0 a 100. Identificate 10-15 situazioni le organizziamo gerarchicamente partendo da quelle con punteggio più basso. Al paziente viene data l’indicazione di provare ad effettuare le prove con punteggi più bassi. Una volta fatto questo verifichiamo insieme al paziente come sono andate le prove e rivalutiamo i punteggi delle situazioni. Il paziente viene spinto a riprovare sempre le situazioni con punteggio basso. Ciò che è previsto come difficile da compiere non deve mai essere proposto.
Gli antecedenti di tutti gli attacchi di panico situazionali sono esaminati assieme al paziente in grande dettaglio: dobbiamo valutare dove succede, quando succede, se le difficoltà sono per la dimensione temporale, se per la presenza\assenza di persone, se per il tempo di sofferenza, se è la distanza da casa, se per la distanza in generale, etc. Così facendo aumentiamo anche la capacità di rappresentazione visivo-iconica dettagliata che, (Sassaroli, 20 ) è carente nei soggetti ansiosi. Le varie fasi dell'esposizione sono superate come in un programma di allenamento. L'esposizione è preceduta da informazioni sui meccanismi fisiologici dell'ansia e del panico e sui vari interventi che si possono effettuare per autocontrollarsi: il messaggio iniziale deve poter sottolineare la possibilità di essere attivi nel proprio dialogo interno di fronte alla manifestazione sintomatologica. Addestrare le persone agorafobiche a riacquisire la capacità di esplorare il territorio aumenta il senso di autoefficacia, diminuisce la autovalutazione negativa, diminuisce la tendenza a previsioni catastrofiche, diminuisce il senso costrittivo di "imprigionamento". L’autovalutazione negativa nei soggetti ansiosi (Sassaroli, 20 ) si declina in particolare nella convinzione di essere incapaci, materialmente e/o emotivamente, di far fronte ai problemi sopravvenienti. L’esposizione in vivo diviene l’occasione privilegiata di modificare questa convinzione attraverso una esperienza contraria, e incide così migliorando l’autovalutazione.
RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA
Si propone una ristrutturazione cognitiva secondo il modello modificato di Clark (1988). Ogni stimolo, esterno o interno, che è considerato minaccioso, produce ansia; questa, a sua volta, induce vari sintomi, somatici e cognitivi, che vengono interpretati dal soggetto in modo catastrofico, contribuendo così ad alimentare ulteriormente lo stato d'ansia, ed instaurando un circolo vizioso autoperpetuantesi. Quindi, l'evento scatenante una crisi di ansia è spesso una sensazione fisica dovuta a stanchezza, malesseri transitori, etc. Alle sensazioni corporee fisiologiche viene attribuito un significato peculiare; si attivano, infatti, schemi cognitivi catastrofizzanti deputati all'analisi delle sensazioni somatiche; gli stimoli enterocettivi, che di per sé sarebbero neutri, sono invece esperiti come sensazioni somatiche terrorizzanti, come risultato delle distorsioni introdotte in tale analisi; il disturbo viene poi mantenuto da un eccesso di apprensione e ipervigilanza nei confronti delle sensazioni somatiche stesse. La messa in atto di comportamenti di evitamento e protettivi, volti a evitare le conseguenze temute dell'attacco, favorisce un ciclo di mantenimento del disturbo, poiché impedisce la disconferma delle credenze erronee del soggetto che continua così ad attribuire a tali comportamenti la capacità di impedire il verificarsi delle conseguenze temute; inoltre, i comportamenti protettivi possono peggiorare direttamente i sintomi a causa di un'attenzione selettiva verso questi (per es. controllare la frequenza del respiro può aumentare la sensazione di mancanza d'aria). Le interpretazioni erronee più frequentemente riscontrate, associate ai sintomi d'ansia sono:
* palpitazioni, dolore toracico: sto per avere un infarto;
* vertigine, irrealtà: sto per perdere il controllo, per impazzire, per svenire, ho un tumore al cervello;
* nodo alla gola, mancanza d'aria: sto per soffocare.
Questo modello viene proposto al paziente adattandolo alla sua personale esperienza di stimoli scatenanti, dialogo interno, situazioni evitate ecc. Secondo Beck, insieme alla catastrofizzazione ideica c'è la percezione di non poter affrontare la crisi utilizzando le risorse personali (deficit di strategie di "fronteggiamento"). C'è una sovrastima del pericolo ed una sottostima delle proprie risorse per fronteggiarlo. Anche le credenze relative a questa convinzione vengono identificate e sottoposte a ristrutturazione.
Al soggetto viene spiegato il modello cognitivista e stimolata la ricerca di credenze irrazionali soprattutto riguardo il pensiero catastrofico. Si stimola la ricerca dell’associazione tra pensiero catastrofico ed ansia e l’identificazione di pensieri alternativi. L’acquisizione di consapevolezza e il distanziamento ottenuto attraverso la ristrutturazione cognitiva sono il primo passo per la sperimentazione di modalità di pensiero e di comportamento nuovi e funzionali.
INTERVENTO SUGLI SCHEMI PREVALENTI
Secondo Guidano (1983) l'organizzazione fobica viene a crearsi all'interno di relazioni di reciprocità con figure di attaccamento rappresentate da genitori iperprotettivi e controllanti, che tendono a trasmettere messaggi di pericolo esterno, di debolezza-vulnerabilità del bambino, e che male tollerano la manifestazione delle emozioni da parte del bambino stesso. Il bambino che cresce in un ambiente di questo tipo tende, così, a costruirsi un'immagine di sé come debole e vulnerabile: da questo nasce la necessità di controllare i pericoli, sia quelli rappresentati dalle forti emozioni, verso le quali il soggetto ha poca dimestichezza, e che vengono controllate, attraverso l'evitamento di sensazioni nuove o improvvise, limitando i cambiamenti e le modifiche nella propria nicchia ecologica, sia quelli provenienti dal mondo esterno. Il bambino sentirà da un lato la necessità fisiologica di esplorare l'ambiente, allontanandosi dalla figura di attaccamento, dall'altra, però, percependo il mondo come pericoloso e sé come soggetto debole, tenderà a non allontanarsi troppo dalla figura d'attaccamento, rinunciando così ad esplorare. Così, anche nell'adulto, si verifica l'oscillare fra due dimensioni essenziali, sicurezza e libertà: la predominanza della sicurezza porta a sentimenti di costrizione, la predominanza della libertà viene invece percepita come solitudine. In entrambi i casi, il mancato raggiungimento di un equilibrio fra le due dimensioni comporta sofferenza per il soggetto.
In questo senso gli eventi scatenanti per una persona con tratti organizzativi fobici sono quelli in cui essa percepisce costrizione (un legame affettivo poco soddisfacente, vissuto come non modificabile) o senso di solitudine intollerabile (rottura di un legame affettivo) che attivano la sequela sintomatologica attivando la reazione neurovegetativa di allarme.
L'intervento è basato sulla valutazione delle regole di funzionamento interno e lettura delle emozioni. Si identificano le regole che seguono la necessità di controllo, la costrizione (predisposizione al soffocamento) e l’intolleranza alle emozioni. Si lavora nell'identificare e nel mettere in discussione gli schemi prevalenti di funzionamento della struttura conoscitiva attraverso:
* stimolo dell'autonomia.
* stimolo dell'esplorazione e curiosità
* disponibilità emotiva nei rapporti.
* distacco dalle figure significative per un rapporto non dipendente ma paritetico.
Sarà importante per fare questo essere particolarmente attenti alle modalità di relazione terapeutica. L'alleanza col paziente si può costruire rendendolo partecipe alla cura fornendogli informazioni e spiegazioni circa le caratteristiche del disturbo e le modalità del trattamento. Possono invece crearsi dei conflitti se l'intervento terapeutico è troppo incentrato sull'intensità emotiva, oppure se non sono stati sufficientemente definiti l'andamento e la durata della terapia. Bisogna tener conto, infatti, che il soggetto con organizzazione cognitiva di tipo fobico ha necessità di sentire il controllo sulla terapia e di immaginarsi protocolli poco costrittivi; in questo senso già dalla prima seduta tende minimizzare il problema, ha difficoltà ad accettare progetti troppo lunghi, avvertiti come costrittivi, ed i farmaci, avvertiti come pericolosi e fuori dal proprio controllo. Si deve cercare, inizialmente, di lasciargli il controllo discutendo la sua teoria del disturbo senza cercare di aggredirla troppo e dargli la sensazione di condurre il colloquio.
E’ importante aiutare il paziente a stabilire rapporti fra episodi, distorsioni cognitive ed emozioni; comprendere come l'intrecciarsi di questi elementi abbia condotto a modalità operative disadattative e a dissonanze ed incongruenze che possono essere criticate, dando inizio così ad una riorganizzazione degli schemi di base del paziente più in sintonia con il suo mondo emotivo. E' fondamentale pertanto che non si perda occasione per stimolare il paziente a percepire i propri stati emotivi smettendo di temerne l'intensità. Bisognerà aiutare il paziente a vivere le emozioni senza preventivamente valutarne l'accettabilità in termini di razionalità o di debolezza: al contrario esse rappresentano una preziosa fonte di conoscenza di sé e di comunicazione interpersonale. Per far questo è utile condurre il colloquio in modo da mettere in luce “cosa sente” di fronte ai vari episodi e come sono definite e distinte tutte le emozioni, sottolineandone il significato nella comunicazione interpersonale e le sensazioni di benessere che emergono se si attenuano le modalità di controllo. Il cambiamento interno a cui si dovrà giungere consiste in quella che si può definire una accettazione di sé che coinvolge sia la sfera cognitiva che quella emotiva. L'esplorazione delle emozioni permetterà di acquisire una maggiore confidenza con esse ed insegnerà ad utilizzarle come fonte di informazione di sé e non come pericoloso segnale di minaccia che spinge l'individuo a rifugiarsi nel sottosistema sintomatico.
DESCRIZIONE DEL PROTOCOLLO
Il protocollo di terapia integrata è costituito da 12-13 sedute circa. Il paziente sarà rivisto circa ogni 15 giorni per 4 mesi, successivamente le visite di controllo saranno mensili.
Durante il primo incontro avviene la raccolta dell'anamnesi psichiatrica patologica personale e familiare e delle informazioni sul contesto esistenziale e relazionale. L'inquadramento del caso viene fatto secondo l'ottica integrata farmacologica e cognitivista. La prima parte dell’intervista è incentrata sull'analisi dettagliata dei sintomi ansiosi (descrizione del paziente, intervista DSM-IV-R, descrizione dell'ambientazione del primo episodio e delle configurazioni ricorrenti degli episodi successivi, periodi intercritici, storia clinica); insieme al soggetto si cerca di costruire una definizione dello scatenamento delle crisi di ansia secondo uno schema "ABC". Subito dopo si raccoglie la storia di vita: si indagano le relazioni affettive e sociali, il rapporto con la famiglia d'origine e con la famiglia attuale, le relazioni sessuali, la situazione nell'ambiente lavorativo e in quello sociale; si indagano i periodi antecedenti l'esordio della sintomatologia e l'ultimo episodio per identificare la presenza di eventi scatenanti. Si esplorano le spiegazioni che il paziente si è dato sul perché del suo malessere (teorie naive) e si valutano le aspettative e gli scopi che intende prefiggersi con la terapia. Si valutano, inoltre, i precedenti tentativi di risolvere i problemi, personali professionali, e le potenziali risorse del soggetto. Vanno, anche, discusse insieme, eventuali aspettative irrealistiche o un'eccessiva diffidenza nei confronti dell'intervento. A questo punto avviene la formulazione del contratto che oltre all’illustrazione dei principi generali della psicoterapia include la proposta farmacologica con descrizione accurata del trattamento come illustrato nel precedente paragrafo. Ad ogni seduta verranno valutati l'andamento della terapia farmacologica, sia riguardo gli effetti positivi che gli effetti collaterali e l'aggiustamento dei dosaggi concordato con il soggetto.
Sempre in prima seduta viene quindi fornito materiale psicoeducativo e possono essere somministrate scale di valutazione per la quantificazione del disturbo e per la rivalutazione alla fine del trattamento e al follow-up. Il nostro protocollo prevede una batteria di test di valutazione che esplorano vari aspetti del disturbo (Mobility Inventory Agoraphobia, Disability Scale, State-Trait Anxiety Inventory, Patient Global Inventory, Clinical Global Inventory). La maggior parte dei test impiegati sono autosomministrati in modo che il soggetto possa valutare in prima persona le modificazioni avvenute alla fine del trattamento.
Nel secondo incontro viene proposto più incisivamente il modello d'intervento secondo la teoria cognitiva. Si parla insieme dei sintomi cercando di sottolinearne la non pericolosità. Si stimola domande sul significato dei sintomi cercando di trovare la condivisione sulle spiegazioni che provengono dal soggetto che siano coerenti con la teoria del disturbo. Viene spiegato il modello del circolo vizioso di mantenimento degli attacchi di panico, il meccanismo cioè mediante il quale alcuni sintomi fisici vengono percepiti dal soggetto come pericolosi, innescando quindi una spirale di ansia che porta all'attacco di panico. Si indaga anche la presenza di comportamenti protettivi e di evitamento: di questi viene spiegato il significato al soggetto e vengono anch'essi inseriti nel circolo vizioso ponendo attenzione ai pensieri ed alle emozioni a questi correlate. Si cerca di riformulare il disagio emotivo del soggetto, valutando insieme gli eventi e l'ambientazione che precedevano le manifestazioni sintomatologiche; si ricerca una correlazione con eventi legati all'infanzia, fattori o situazioni precedenti la crisi che possono averla favorita. Infine si danno al soggetto compiti di autoosservazione attraverso anche la compilazione del diario degli attacchi di panico (data, situazione, emozione, pensiero, comportamento, numero degli attacchi) per poter valutare la reale presenza delle relazioni proposte.
Al terzo incontro si verificano insieme al soggetto i compiti di autoosservazione. E' poi continuamente riformulato il circolo vizioso includendo anche i comportamenti protettivi e di evitamento, focalizzandosi sulle credenze chiave del soggetto. Da questa seduta si attua la ristrutturazione cognitiva mediante tecniche di riattribuzione verbale e comportamentale. Si invita il soggetto ad una rilettura del disagio emotivo in termini ABC in senso trasversale e longitudinale. Si somministrano al soggetto esercizi di autoosservazione da compiere fuori dalla seduta per identificare la relazione pensieri disfunzionali/ansia. Continua la monitorizzazione della terapia farmacologica con attenzione all'eventuale scalaggio di benzodiazepine.
Dal quarto incontro si attiva maggiore richiesta alla partecipazione del soggetto alla sua cura; si propone e costruisce insieme una gerarchia di esposizione in vivo, invitando il paziente a ridurre i comportamenti protettivi e attivandosi nella costruzione della sua vita futura. I compiti comportamentali saranno utili per evidenziare ulteriori credenze disfunzionali e per identificare gli schemi prevalenti del soggetto. Continua la monitorizzazione della terapia farmacologica mantenendo stabilmente i dosaggi acquisiti.
Dal quinto incontro si valutano gli schemi prevalenti (catastrofismo, bisogno di controllo, costrizione, intolleranza alle emozioni), si identificano e si eliminano i comportamenti protettivi residui, si stimola ancora l'autoosservazione. Continua la verifica degli esercizi comportamentali, l'analisi delle crisi, che in questa fase sono limitate e non più percepite come incomprensibili, favorendone una rilettura a questo punto centrata sugli schemi prevalenti del soggetto.
Dal nono incontro si valuta la capacità del soggetto di associare i pensieri alle emozioni attraverso l'analisi delle situazioni; si rinforza l'autostima attraverso l'identificazione degli atteggiamenti positivi. Quest'ultima parte della terapia prevede la diminuizione dei dosaggi e lo stimolo all'osservazione da parte del soggetto delle proprie reazioni emotive e delle strategie per equilibrarle; lo scalaggio farmacologico è importante proprio perchè attraverso questo lavoro di osservazione il soggetto può identificare gli eventi e gli accadimenti che anticipano la reazione emotiva e metterla in correlazione e può sviluppare la capacità di associare le sensazioni fisiche a pensieri ed emozioni coerenti al filone della storia personale. Questo lavoro è fondamentale per attenuare l’intolleranza alle emozioni. Si utilizza la teoria evoluzionista per la spiegazione delle emozioni; esse possiedono un valore informativo o significativo biologicamente determinato con uno statuto di antecedenza e relativa autonomia rispetto alle strutture e ai processi di pensiero. L'ansia ha una funzione adattativa. L'ansia ci avverte della presenza di un pericolo indefinito o futuro, riguarda l'aspettativa di un pericolo che non è immediato e nemmeno sempre ben definito. L'attacco di panico (ansia acuta) potrebbe così essere considerato la reazione cognitiva che utilizza schemi deputati ad una funzione di sopravvivenza di fronte a pericoli (interni od esterni) vissuti come particolarmente nocivi (es. morte) o sconosciuti e che porta all'attivazione della sequenza comportamentale basica. Si può considerare come minaccia per scopi o bisogni personali soprattutto inerenti il futuro.
Con tale lavoro si favorisce la prevenzione delle ricadute stimolando ancora al soggetto alla comprensione del sintomo riguardo agli eventi e rendendolo attivamente partecipe alla diminuzione del dosaggio farmacologico.
Dal decimo al dodicesimo incontro si chiude il protocollo verificando il lavoro svolto, terminando lo scalaggio della terapia e organizzando un eventuale progetto successivo. In questa fase è importante che il paziente percepisca una sua diretta responsabilità nel processo di miglioramento dei sintomi.
Al termine del trattamento vengono nuovamente somministrate le scale di autovalutazione e si valuta l'eventualità di un progetto a lungo termine che può includere le strategie da mettere in atto per eventuali ricadute o anche l'invio in psicoterapia standard.
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